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Io, marito in manette

PROTAGONISTI / ROBERT REDFORD
Con "In ostaggio", uno psico thriller sull'amore coniugale, torna il divo di Sundance. Lontanissimo da Hollywood.

di Vito Taormina

Il tempo ha scolpito lo sguardo inquisitorio, il sorriso audace. Incontrare Robert Redford, 67 anni, quasi mez-zo secolo di esperienza cinematografica alle spalle, è come aprire un grande libro illustrato di storia americana. «Prima vagabondo in Francia, poi studente d'arte a Firenze, ma è vivendo lontano che ho imparato di più a capire il mio paese, a sentirmi americano».

Premio Oscar nel 1980 per la regia di Gente comune, Redford era gia una stella di Hollywood alla fine degli anni Sessanta quando, con Paul Newman, interpretò il western Butch Cassidy e Sundance Kid. E proprio Sundance Kid, it personaggio che lo ha reso famoso, ha ispirato it nome del Sundance institute, l'organizzazione che ha fondato nel 1980 per promuovere it cinema indipendente americano. Una passione che ha contagiato ad altri divi come Robert De Niro, creatore del TriBeca film festival.

Oggi Robert Redford non avrebbe più nulla da chiedersi. Invece è attivissimo: ha prodotto I dialoghi della motocicletta, film sulla giovinezza di Che Guevara, continua a sostenere nuovi testi e sceneggiatori, si batte a oltranza per la difesa dell'ambiente. «Perché arte e natura muovono la mia vita» spiega in questa intervista a Panorama.

 

In Italia il 26 novembre uscirà. «In ostaggio». Non era mai accaduto the un film con lei protagonista partecipasse al suo Sundance festival. Come mai ha infranto questa regola?

 

Perché In ostaggio è una storia insolita che mi ha affascinato. Il film, nel contesto del thriller psicologico, scandaglia il rapporto moglie-marito e analizza le due facce del sogno americano: it lato luminoso e quello tenebroso. E' una sceneggiatura interessante, scritta con l'eleganza che oggigiorno manca a molte altre storie.

 

Si riferisce ai film di Hollywood?

Sì. Dove purtroppo e di scena un cambiamento in peggio: mancano nuove idee, prevalgono gli effetti speciali, le storie si assomigliano. A Hollywood c'è panico.

 

E' giunto quindi il momento del riconoscimento del cinema indipendente americano?

C'è un certo interesse del pubblico e in parte è merito del Sundance: da anni cerchiamo di promuovere idee nuove. Ma c'è ancora molto lavoro da svolgere. I film documentario, per esempio, meritano più rispetto e dovrebbero essere  distribuiti in maniera capillare in tutte le sale americane, non solo nelle grandi città.

Comunque è interessante notare che Fahrenheit 9/11, Supersize me e Bowling for Columbine siano stati tutti e tre lanciati dal Sundance film festival.

 

Non crede the i film-documentario da lei citati abbiano assunto un grande valore commerciale anche perché estremi?

Diciamo che si sono avvicinati a un certo tipo di film estremi. Fahrenheit 9/11 di Michael Moore è quasi una versione documentario della Passione di Mel Gibson, un film che molti hanno voluto vedere appunto perché estremo.

 

Anche lei?

No, non l'ho visto Ed ecco perche non posso dire se è un bel film. Ma posso affermare che una larga fetta di pubblico apprezza i film estremi.
 

E' un segno dei tempi?

Assolutamente sì. Perché i produttori si stanno accorgendo che le sale del cinema si possono riempire anche af-frontando temi politici, sociali e religiosi. Insomma: al grande pubblico piace anche questo tipo di spettacolo.

 

«In ostaggio» l'ha convinta a tomare attore dopo tre anni di pausa. Cosa ha trovato di particolare nella sceneggiatura?

Innanzitutto ho trovato tutti gli elementi del film indipendente, che è cio che io promuovo: per esempio, il regista e lo sceneggiatore sono esordienti. Poi Wayne, il protagonista, non mi somiglia: è stata dunque una sfida professionale, perché bisogna essere convincenti in qualsiasi ruolo. E ho dovuto affrontare un'altra prova con me stesso: nel corso delle riprese sono stato incappucciato e avevo quasi sempre i polsi legati, sensazione per me insopportabile. Io ho sempre avuto bisogno di libertà e di movimento. Infine sono stato attratto dalla presenza di due attori straordinari: Willem Dafoe ed Helen Mirren.


E cosa l'ha attratta nella figura del protagonista?
Il fatto che la sua vita cambia in un attimo. Wayne, in superficie, e il prototipo del sogno americano. E' infatti un uomo che ha lavorato per tutta la vita e che si è guadagnato ciò che ha ottenuto: iI denaro, iI successo, la bella casa, le auto di lusso. Ma appena giunto al traguardo è costretto bruscamente a guardarsi indietro: per rendersi conto di tutto ciò che ha lasciato per strada. Come la moglie e i figli.

 

Lei ha diretto film, come «Gente comune e «L'uomo the sussurrava ai cavalli», che affrontavano appunto l'incomunicabilità fra genitori e figli. Da cosa nasce questo suo interesse per i rapporti intrafamiliari?

L'analisi della famiglia, i legami fra madri, padri, fratelli e sorelle sono temi classici: risalgono alla tragedia greca, sono stati affrontati da William Shakespeare. La famiglia per me e stata sempre un soggetto affascinante e lo è ancora. Quando interpreto o dirigo un film, cerco di rivedere con occhio critico tutto ciò che credo di conoscere meglio, come per esempio la società americana e le sue problematiche. E la famiglia è un'istituzione fondamentale che cerco di interpretare da un'angolatura meno convenzionale: spero di riuscirci sia da attore che da regista.

 

Qual suo regista italiano preferito?

Federico Fellini, I1 suo impatto ha cambiato la storia del cinema.

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